Mezzanotte è passata da venti minuti quando la terra torna a
tremare. Si tratta di una scossa fortissima, che raggiunge il nono grado della
scala Mercalli. A Reggio Calabria questa scossa provoca il crollo di molte
abitazioni private già lesionate dalla scossa del giorno precedentee
soprattutto di molti degli edifici pubblici e religiosi: la maggior parte delle
parrocchie cittadine rovinano al suolo o sono talmente compromesse da non
potere più essere utilizzate per la celebrazione dei riti sacri. In queste
condizioni versano tutte le parrocchie del Reggino, comprese quelle che sorgono
dentro le mura cittadine (intra moenia) fra le quali (accanto alla parrocchia
di Santa Maria della Cattolica dei Greci, alla parrocchia di San Sebastiano
Martire, alla parrocchia di San Giorgio seu Gulpheris intra moenia, alla
Parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo e alla parrocchia di Santa Maria della
Candelora) spicca ovviamente per importanza la Cattedrale intitolata a Maria
Santissima Assunta che ha subito gravissimi danni strutturali.
I fatti più luttuosi, però, si verificano a Scilla. Qui gli
abitanti scampati alla prima scossa, circa duemila fra uomini, donne e bambini,
sono confluiti sulla spiaggia, improvvisamente considerata un luogo sicuro,
dove hanno deciso di trascorrere la notte. Fra loro, c’è anche l’anziano
signore di Scilla, don Fulcone Antonio Ruffo che ha ottantuno anni ed è stato
trasportato con una lettiga a Marina Grande «in un punto vicino alla chiesa
dello Spirito Santo, ove si era apparecchiata a riceverlo la paranza di padron
Mommo». Dal mare arriva una brezza
gelida, che penetra nelle ossa e gli scillesi, per ripararsi dai rigori
invernali, hanno costruito tende e malferme tettoie in legno piantate sulla
sabbia oppure si sono rifugiati sotto barche rovesciate. Assiepati sulla
spiaggia di Marina Grande, di Oliveto e di Chianalea in pochi dormono. Col
cuore ricolmo di dolore e di paura, vegliano piangendo la terribile fine dei
loro compaesani morti sotto le macerie. Non sanno che una fine ancora più terribile
incombe su di loro. I vicoli di San Giorgio, Acquagrande e Gornelle, i tre
quartieri di Scilla, sono deserti. Sulla spiaggia in molti pregano. Neppure don
Fulcone dorme: intento a leggere, sussulta al suono del boato che preannuncia
una nuova scossa. Immobili tutti attendono che la terra smetta di tremare.
Cessato il tremore, circa mezz’ora dopo, si ode un pesante tonfo:
è un costone
del Monte Campallà che si è distaccato ed è precipitato in mare. Pochi istanti
dopo uno spettacolo orribile si para davanti ai loro occhi increduli. Non hanno
neanche il tempo di dire amen per affidare l’anima a Dio. Un gigantesco muro
d’acqua li travolge risucchiandoli. È un maremoto provocato dalla caduta in
mare del costone del Monte Campallà. Scrive il canonico Giovanni Minasi:
«Verso l’una e tre quarti dopo mezzanotte, dopo una
fortissima scossa di terremoto, avvertita mezz’ora prima, si comincia a sentire
dalla parte di Pascì un sordo e continuato fragore che fa raccapricciare tutti
gli animi già miserevolmente esterrefatti. Durò quasi un minuto primo, e dopo
un cinque secondi si vede venire da quello stesso lato un cavallone altissimo
spumeggiante, che in un baleno inonda la marina lunga un cinquecento metri,
ricoprendola interamente. […] Dietro questa prima ondata incalza una seconda, e
quindi una terza, ma decrescendo sempre d’intensità; fin che il mare ritorna
calmo e nello stato primiero. Quale fu la sorte di tutto quel popolo che si era
attendato sul lido? Tutti, eccetto pochissimi, furono ingoiati dal mare.»
Per circa un anno il mare continuerà a restituire i corpi
orribilmente straziati delle vittime, alcuni dei quali raggiungeranno le coste
di Malta. Fra questi cadaveri probabilmente c’è anche quello di don Fulcone
Antonio Ruffo, il principe di Scilla anche lui risucchiato dai flutti.
«La massa dell’acqua travolse quei miseri una colle loro
barche o ripari, seco traendoli contro le rupi ed il fabbricato. Sotto
quell’impeto fu rovesciata la chiesa dello Spirito Santo […] La chiesa di S.
Maria delle Grazie, sfondata la porta, fu riempita d’acqua e di sabbia; lo
stesso accadde in quella di S. Nicola, ove il mare precipitossi dentro per le
finestre del fianco che guarda il lido […]»
Miracolosamente, però, qualcuno riuscirà a salvarsi dalla
furia del mare: fra coloro che hanno salva la vita c’è il farmacista Diego
Macrì che scampa alla morte aggrappandosi a una piccola botte vuota, Giuseppe
di Lia e Santa Ungaro trasportati dalle onde del mare attraverso una finestra
sull’altare della Chiesa di San Nicola, i sacerdoti Giuseppe Paladino e Carlo
Antonio Carbone, rimasti impigliati in una rete distesa sulla spiaggia, Santa
Raimondi i cui lunghi capelli rimangono impigliati ai rami di un gelso che si
trovava nei pressi della fontana detta di Cola Iacopo o delle Gornelle. Merita
di essere ricordata anche «Annunziata Costa, gravida di quattro mesi, rapita
dal mare e orribilmente sbattuta dalle onde, [che] restò sempre a galla col
dorso sulle acque, fintantoché fu dalle stesse deposta sul lido»
Il maremoto risparmia anche una baracca di tavole costruita
allo sbocco del Torrente Livorno da Domenico Baviera e che «poi servì per
mettere al sicuro i naufraghi e ristorarli […]. Questa baracca, conservata per
qualche tempo, fu poscia dagli Scillesi […] nominata l’Arca del diluvio».
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