LA TERRA TREMA ANCORA … IL MAREMOTO DI SCILLA DEL 6 FEBBRAIO 1783

Mezzanotte è passata da venti minuti quando la terra torna a tremare. Si tratta di una scossa fortissima, che raggiunge il nono grado della scala Mercalli. A Reggio Calabria questa scossa provoca il crollo di molte abitazioni private già lesionate dalla scossa del giorno precedentee soprattutto di molti degli edifici pubblici e religiosi: la maggior parte delle parrocchie cittadine rovinano al suolo o sono talmente compromesse da non potere più essere utilizzate per la celebrazione dei riti sacri. In queste condizioni versano tutte le parrocchie del Reggino, comprese quelle che sorgono dentro le mura cittadine (intra moenia) fra le quali (accanto alla parrocchia di Santa Maria della Cattolica dei Greci, alla parrocchia di San Sebastiano Martire, alla parrocchia di San Giorgio seu Gulpheris intra moenia, alla Parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo e alla parrocchia di Santa Maria della Candelora) spicca ovviamente per importanza la Cattedrale intitolata a Maria Santissima Assunta che ha subito gravissimi danni strutturali.

I fatti più luttuosi, però, si verificano a Scilla. Qui gli abitanti scampati alla prima scossa, circa duemila fra uomini, donne e bambini, sono confluiti sulla spiaggia, improvvisamente considerata un luogo sicuro, dove hanno deciso di trascorrere la notte. Fra loro, c’è anche l’anziano signore di Scilla, don Fulcone Antonio Ruffo che ha ottantuno anni ed è stato trasportato con una lettiga a Marina Grande «in un punto vicino alla chiesa dello Spirito Santo, ove si era apparecchiata a riceverlo la paranza di padron Mommo».  Dal mare arriva una brezza gelida, che penetra nelle ossa e gli scillesi, per ripararsi dai rigori invernali, hanno costruito tende e malferme tettoie in legno piantate sulla sabbia oppure si sono rifugiati sotto barche rovesciate. Assiepati sulla spiaggia di Marina Grande, di Oliveto e di Chianalea in pochi dormono. Col cuore ricolmo di dolore e di paura, vegliano piangendo la terribile fine dei loro compaesani morti sotto le macerie. Non sanno che una fine ancora più terribile incombe su di loro. I vicoli di San Giorgio, Acquagrande e Gornelle, i tre quartieri di Scilla, sono deserti. Sulla spiaggia in molti pregano. Neppure don Fulcone dorme: intento a leggere, sussulta al suono del boato che preannuncia una nuova scossa. Immobili tutti attendono che la terra smetta di tremare. Cessato il tremore, circa mezz’ora dopo, si ode un pesante tonfo:

è un costone del Monte Campallà che si è distaccato ed è precipitato in mare. Pochi istanti dopo uno spettacolo orribile si para davanti ai loro occhi increduli. Non hanno neanche il tempo di dire amen per affidare l’anima a Dio. Un gigantesco muro d’acqua li travolge risucchiandoli. È un maremoto provocato dalla caduta in mare del costone del Monte Campallà. Scrive il canonico Giovanni Minasi:

«Verso l’una e tre quarti dopo mezzanotte, dopo una fortissima scossa di terremoto, avvertita mezz’ora prima, si comincia a sentire dalla parte di Pascì un sordo e continuato fragore che fa raccapricciare tutti gli animi già miserevolmente esterrefatti. Durò quasi un minuto primo, e dopo un cinque secondi si vede venire da quello stesso lato un cavallone altissimo spumeggiante, che in un baleno inonda la marina lunga un cinquecento metri, ricoprendola interamente. […] Dietro questa prima ondata incalza una seconda, e quindi una terza, ma decrescendo sempre d’intensità; fin che il mare ritorna calmo e nello stato primiero. Quale fu la sorte di tutto quel popolo che si era attendato sul lido? Tutti, eccetto pochissimi, furono ingoiati dal mare.»

Per circa un anno il mare continuerà a restituire i corpi orribilmente straziati delle vittime, alcuni dei quali raggiungeranno le coste di Malta. Fra questi cadaveri probabilmente c’è anche quello di don Fulcone Antonio Ruffo, il principe di Scilla anche lui risucchiato dai flutti.

«La massa dell’acqua travolse quei miseri una colle loro barche o ripari, seco traendoli contro le rupi ed il fabbricato. Sotto quell’impeto fu rovesciata la chiesa dello Spirito Santo […] La chiesa di S. Maria delle Grazie, sfondata la porta, fu riempita d’acqua e di sabbia; lo stesso accadde in quella di S. Nicola, ove il mare precipitossi dentro per le finestre del fianco che guarda il lido […]»

Miracolosamente, però, qualcuno riuscirà a salvarsi dalla furia del mare: fra coloro che hanno salva la vita c’è il farmacista Diego Macrì che scampa alla morte aggrappandosi a una piccola botte vuota, Giuseppe di Lia e Santa Ungaro trasportati dalle onde del mare attraverso una finestra sull’altare della Chiesa di San Nicola, i sacerdoti Giuseppe Paladino e Carlo Antonio Carbone, rimasti impigliati in una rete distesa sulla spiaggia, Santa Raimondi i cui lunghi capelli rimangono impigliati ai rami di un gelso che si trovava nei pressi della fontana detta di Cola Iacopo o delle Gornelle. Merita di essere ricordata anche «Annunziata Costa, gravida di quattro mesi, rapita dal mare e orribilmente sbattuta dalle onde, [che] restò sempre a galla col dorso sulle acque, fintantoché fu dalle stesse deposta sul lido»

Il maremoto risparmia anche una baracca di tavole costruita allo sbocco del Torrente Livorno da Domenico Baviera e che «poi servì per mettere al sicuro i naufraghi e ristorarli […]. Questa baracca, conservata per qualche tempo, fu poscia dagli Scillesi […] nominata l’Arca del diluvio».

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