IL «GRAN TREMUOTO» DEL 5 FEBBRAIO 1783: L’ESORDIO DI UNA TERRIBILE CRISI SISMICA







Il 5 febbraio 1783, quando il sole si affaccia all’orizzonte, nulla lascia presagire l’immane sciagura che, di lì a qualche ora, si abbatterà come una mannaia sulla Calabria ulteriore e sul Messinese infliggendo ferite profondissime. Alle prime luci dell’alba, come ogni giorno, in questi territori, domini di Sua Maestà Ferdinando IV di Borbone, le campane delle parrocchie danno la sveglia: città e campagne si animano. Ciascuno si dedica alle proprie attività usuali. Nelle aie, però, gli animali domestici manifestano una insolita inquietudine, una strana frenesia e alcuni pescatori a bordo delle loro agili imbarcazioni, a largo di Bivona e di Pizzo, calando le reti in mare aperto, scorgono fra i flutti un inquietante ribollire. Alzano gli occhi al cielo. In nomine Patris et Filii et SpiritusSancti biascicano a mezza voce. Si fanno il segno della croce invocando la protezione divina e, atterriti, ritornano sulla terraferma. Alle tredici e quindici circa, le «ore diciannove, ed un quarto, che corrispondevano […] a tre quarti d'ora dopo mezzo dì dell’Oriuolo Francese», si percepisce distintamente «un cupo sotterraneo mugito [sic] a guisa di continuati tuoni». Subito dopo un terrificante lampo attraversa il cielo e il suolo comincia a sussultare violentemente per due interminabili minuti.
Epicentro di questa prima, terribile scossa sismica è Oppido Mamertina: nella città, completamente distrutta, si contano circa 5.000 morti. Ingentissime le ferite inflitte dal terremoto al territorio: il terreno in più punti mostra profonde spaccature. Si sono aperte vere e proprie voragini e, quel che è più grave, intere colline sono franate a valle deviando i corsi di torrenti e di fiumi e creando pozze d’acqua stagnante destinate a diventare brodo di coltura delle zanzare anopheles, temibili vettori della malaria. Anche nei paesi della Piana di Gioia Tauro e dell’aspromontano la scossa, avvertita distintamente, ha seminato morte e distruzione. Né sono stati risparmiati Reggio Calabria e i suoi casali: cadute le mura della città, gravemente danneggiato il piccolo forte nella marina di Pentimele, totalmente distrutti i casali di Ortì, Nasiti, Arasì, Pavigliana, Perlupo, Straorino e Schindilifà, in ginocchio tutti gli altri casali, nessuno escluso: a Terreti, ad esempio, sono cadute alcune rocche e a Valanidi un’altra rocca minaccia di crollare. Ancora più preoccupante la situazione nel territorio di Pavigliana dove una rocca precipitata rovinosamente nella valle sottostante ha sbarrato un corso d’acqua. A Perlupo il terreno si è aperto creando una fenditura della lunghezza di «ottanta canne».


«Fu a ore 19 e un quarto, nel dì 5 febbraio 1783, il gran tremuoto che mise a terra la Calabria del mezzodì. Reggio e i suoi villaggi parte caddero, parte rimasero conquassati e cadenti. Il Cronista trovavasi allora in un suo podere vicino alla città. Al principiare del terremoto saltò fuori della casa; ma dopo tre passi assiderò, e non poté più allontanarsi dalle fabbriche. Il tremuoto lo sentì ora ondulatorio, ora vorticoso con movimenti irregolarissimi. Le orribili scosse lo spinsero due volte a cader boccone contro la terra; ma avanti di toccare il suolo, ambe le volte, un urto contrario lo rimise in piedi. Alfine, non potendo più reggersi sulle gambe afferrossi ad una vicina trave che faceva da sostegno a un pergolato; e al fiero trabalzare neppure resistendo, così abbracciato a quel sostegno scivolò sui ginocchi; e dalle scosse venendo ricalcato ancora col viso a vicinanza del terreno, vide fremer questo e rigurgitare come l’acqua d’una gran caldaia che bolle a ricorsoio. Durante il tremuoto metteano gran fragore gli alberi sbattenti fra loro […]; e s’udiva un cupo rombo per l’aria».

Il «Cronista» è Gregorio Palestino, canonico e nobile reggino nonché studioso raffinato. Dopo avere vissuto questa terribile esperienza l’autorevole uomo di chiesa ha scritto una memoria intitolata Cenno storico sui Tremuoti del 1783 successivamente riassunta in un dettagliato resoconto pubblicato da Antonio M. De Lorenzo, nelle sue Monografie e memorie reggine e calabresi.

Sono attimi di autentico terrore in cui uomini, donne e bambini, preda delle indomabili forze della natura, cercano una via di scampo ed è proprio mentre fuggono che spesso trovano la morte come accade agli abitanti di Sant’Agata: 


«Per l’ora di piena veglia, in cui il tremuoto avvenne, e per la graduale efficacia ond’esso venne rinforzando, avrebbero ad essere relativamente poche le vittime; ma poiché non potevasi cercare salvezza che o nelle viuzze strettissime di quelle povere terre di rifugio, ovvero pei fianchi della rupe correndo a valle; venia la gente o accoppata fuori le case, o raggiunta pei declivii dalla valanga de’ rovesciati edificii, che insieme con le cinte murali e la stessa massa del sottosuolo precipitavano a valle».

Finita la scossa, dal Bastione di San Francesco che sovrasta la città di Reggio Calabria la visione è apocalittica: nulla, neanche la Rada dei Giunchi, è stato risparmiata. Il terreno ha tremato anche a Scilla e a Bagnara: la maggior parte delle case e delle chiese sono state ridotte in cumuli di macerie e quelle che non sono crollate, gravemente lesionate, sono del tutto inagibili. Sotto le macerie, dopo la scossa del 5 febbraio, in questi territori sono rimaste circa 150 persone:
«Delle dodici chiese che allora contava Scilla, rimase intera solamente quella di S. Nicola, perché coperta di bassa e solidissima volta: tutte le altre, parte caddero, parte restarono conquassate e cadenti. Al tempio di S. Rocco precipitò l’altissima volta di mattoni, e sì anche i due campanili e metà della facciata. / Alla Chiesa madre […] cadde la cupola e la crociera dalla parte di levante; e questa precipitando nel sottoposto rione Acquagrande, seppellì dieci case e uccise ventuno persone»

Ovunque, dunque, è morte e distruzione.

Sull’altra sponda dello Stretto anche Messina piange i suoi morti, circa 600, a cui si aggiungono danni notevolissimi: nel giro di due minuti la città è stata privata dei suoi “gioielli” più preziosi, quelli di cui andava più fiera, a cominciare dalla splendida Palazzata che incorniciava il porto, cuore della sua fervida vita economica perché centro di scambi commerciali e punto di riferimento imprescindibile anche per Reggio Calabria. Affratellate nel dolore le due città adesso piangono insieme e insieme guardano a Napoli, al Re, sperando che il Sovrano provveda a inviare  al più presto soccorsi e aiuti per porre rimedio a quella che, già il 5 febbraio, appare come una catastrofe. Ma il peggio, in realtà, deve ancora arrivare…


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