«Fu a ore 19 e un quarto, nel dì 5 febbraio 1783, il gran tremuoto che mise a terra la Calabria del mezzodì. Reggio e i suoi villaggi parte caddero, parte rimasero conquassati e cadenti. Il Cronista trovavasi allora in un suo podere vicino alla città. Al principiare del terremoto saltò fuori della casa; ma dopo tre passi assiderò, e non poté più allontanarsi dalle fabbriche. Il tremuoto lo sentì ora ondulatorio, ora vorticoso con movimenti irregolarissimi. Le orribili scosse lo spinsero due volte a cader boccone contro la terra; ma avanti di toccare il suolo, ambe le volte, un urto contrario lo rimise in piedi. Alfine, non potendo più reggersi sulle gambe afferrossi ad una vicina trave che faceva da sostegno a un pergolato; e al fiero trabalzare neppure resistendo, così abbracciato a quel sostegno scivolò sui ginocchi; e dalle scosse venendo ricalcato ancora col viso a vicinanza del terreno, vide fremer questo e rigurgitare come l’acqua d’una gran caldaia che bolle a ricorsoio. Durante il tremuoto metteano gran fragore gli alberi sbattenti fra loro […]; e s’udiva un cupo rombo per l’aria».
Il «Cronista» è Gregorio Palestino, canonico e nobile reggino nonché studioso raffinato. Dopo avere vissuto questa terribile esperienza l’autorevole uomo di chiesa ha scritto una memoria intitolata Cenno storico sui Tremuoti del 1783 successivamente riassunta in un dettagliato resoconto pubblicato da Antonio M. De Lorenzo, nelle sue Monografie e memorie reggine e calabresi.
Sono attimi di autentico terrore in cui uomini, donne e bambini, preda delle indomabili forze della natura, cercano una via di scampo ed è proprio mentre fuggono che spesso trovano la morte come accade agli abitanti di Sant’Agata:
«Per l’ora di piena veglia, in cui il tremuoto avvenne, e per la graduale efficacia ond’esso venne rinforzando, avrebbero ad essere relativamente poche le vittime; ma poiché non potevasi cercare salvezza che o nelle viuzze strettissime di quelle povere terre di rifugio, ovvero pei fianchi della rupe correndo a valle; venia la gente o accoppata fuori le case, o raggiunta pei declivii dalla valanga de’ rovesciati edificii, che insieme con le cinte murali e la stessa massa del sottosuolo precipitavano a valle».
Sull’altra sponda dello Stretto anche Messina piange i suoi morti, circa 600, a cui si aggiungono danni notevolissimi: nel giro di due minuti la città è stata privata dei suoi “gioielli” più preziosi, quelli di cui andava più fiera, a cominciare dalla splendida Palazzata che incorniciava il porto, cuore della sua fervida vita economica perché centro di scambi commerciali e punto di riferimento imprescindibile anche per Reggio Calabria. Affratellate nel dolore le due città adesso piangono insieme e insieme guardano a Napoli, al Re, sperando che il Sovrano provveda a inviare al più presto soccorsi e aiuti per porre rimedio a quella che, già il 5 febbraio, appare come una catastrofe. Ma il peggio, in realtà, deve ancora arrivare…
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