UNA CITTÀ SENZA CAMPANILI

Dopo il terribile flagello Reggio Calabria è una città senza campanili. Il rintocco delle campane, che prima dei «tremuoti» scandiva il tempo e le attività quotidiane, non risuona più. Le parrocchie cittadine, infatti, gravemente lesionate o crollate, sono state abbandonate. Nessuno più celebra la messa sui loro altari. Le «anime» delle diverse parrocchie, disseminate nelle campagne, spesso rimangono senza una guida spirituale e i sacerdoti, del tutto privi di risorse, chiedono un contributo al Re che consenta loro di costruire chiese baraccate dove potere adempiere i sacri uffici in attesa che le loro parrocchie vengano ricostruite o ristrutturate.

Le condizioni in cui si trovano le parrocchie di Reggio Calabria dopo i terremoti del 1783 sono fotografate dalla minuta non firmata di una relazione conservata presso l’Archivio storico diocesano Reggio Calabria– Bova (ASDRB) datata 13 febbraio 1784 e indirizzata al colonnello napoletano Antonio Alberto Micheroux, luogotenente del vicario generale del Re, Francesco Pignatelli e ispettore della Cassa sacra. Si legge infatti in questa relazione:

«dopo il terremoto de’ 5 febraio dello scorso anno, sendo cadute, tutte le chiese parrocchiali di questa Città, con buona parte degl’edifici di essa; il popolo abbandonata la Città si collocò in varie parti nelle vicine campagne; e in conseguenza confuse le parrocchie; affinché le anime non patissero Spiritual Detrimento; ho giudicato far subito una interina divisione di Parrocchie secondo i vari recinti di abitazioni occupati dal popolo, e destinare in ogni rione il proprio Parroco. Intanto non avendo i parrochi così destinati luogo ove esercitare le loro fonzioni; né avendo maniera, di poter costruire barracche parrocchiali; attesa la loro povertà; tennero ricorso al Santo Trono ha tal uopo: e ottennero dalla Santa Clemenza la somma di docati mille, e sei cento, per erogarsi alla formazione delle barracche parrocchiali  […] ho eseguito subbito, la distribuzione […] e quindi i Parrochi […] han subito costruito le loro barracche parrocchiali, erogando in tale opra non solo il tangente assegnato, ma qualche cosa dippiù malgrado la povertà delle loro Chiese [...]. I Parrochi della Città l’hanno impiegata nel formare la loro Sagra Barracca nel rione della loro Cura; perché ivi si trovava, come si trova oggi il popolo […]».

In questa situazione difficilissima monsignor Alberto Maria Capobianco, arcivescovo di Reggio Calabria, si adopera per alleviare le sofferenze dei reggini come ricorda William Hamilton nella sua Relazione dell'ultimo terremoto delle Calabrie e della Sicilia inviata alla Società Reale di Londra.

«L’Arcivescovo, Prelato sensibile, umano ed attivo si è distinto dal principio del terremoto fino a questo giorno, avendo immediatamente disposto di tutti gli ornamenti superflui delle Chiese, dei suoi propri cavalli e carrozze unicamente in ajuto del suo desolato gregge, col quale allegramente ha partecipato di tutti quelli incomodi e disagi che una simile calamità ha naturalmente cagionato»

William Hamilton, illustre archeologo e vulcanologo, dal 1764 risiede a Napoli in qualità di ambasciatore del re d’Inghilterra presso la corte di re Ferdinando IV di Borbone.

Più di dieci anni dopo, nel 1796, la situazione delle parrocchie reggine non è certo migliorata stando a quanto leggiamo in una «Memoria delle disavventure della Diocesi di Reggio presentata all’Eccellentissimo Marchese Visitatore Generale della Provincia di Calabria Ulteriore Prima dal Vicario Capitolare Barilla», altro documento conservato presso l’ASDRB:

«[…] La seconda [disavventura] è la mancanza della Chiese Parrocchiali in molte parti della Diocesi, e le sacre funzioni si fanno, o in barracche mal congegnate, o in Chiese che minacciano rovina, o che per loro angustia, e picciolezza non sono capaci di accogliere i Parrocchiani, e le Popolazioni, che vi sono addette onde va in decadenza il Culto di Dio, la istruzzione dei Popoli e l’amministrazione de’ Sacramenti e s’è perduta la venerazione  dovuta a’ Sacri luoghi e alla Casa del Dio vivente. / Quelle chiese poi che sono edificate sono mancanti di campanile, di sacrestia o di abitazione per lo Parroco o di soffitto, o di copertura, o d’intonacatura a didentro, o di sepoltura, o di campana, o di Santi arredi ed in alcuni luoghi in cui si formarono le Chiese essendo state date a staglio cominciarono a lesionarsi, e sono pericolanti, perché malfatte e malamente fabricate […]»

La ricostruzione delle parrocchie, quindi, procede a rilento e questo provoca effetti negativi non solo sulla morale ma anche sull’istruzione della popolazione. La Cassa sacra, cessata proprio nel 1796, dunque, ha fallito il proprio compito e, fino a quando non è stata soppressa, spesso non ha erogato i fondi necessari per la ricostruzione e, quando li ha erogati, erano comunque insufficienti.

Così la riedificazione della Chiesa di Scilla è cominciata a spese del popolo poiché la Cassa Sacra non ha fornito contributi. Le Chiese di Santa Maria della Candelora e Santa Maria della Cattolica dei Greci non sono state ricostruite e i fedeli continuano a riunirsi in baracche fuori città. La Chiesa di Sant’Agata, invece, è stata riedificata a Gallina, dove la popolazione è emigrata e nella Chiesa di Sambatello il tetto è stato appoggiato su due colonne di legno, che però ben presto hanno iniziato a dare segni di cedimento, mentre le campane, collocate quasi all’altezza del suolo, non sono udibili e corrono il rischio di incrinarsi.












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